Napoli torna capitale dell’arte: l’opera di Jam Dine racconta e interroga
CULTURA
7 dicembre 2025

Napoli torna capitale dell’arte: l’opera di Jam Dine racconta e interroga

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Napoli ha un dono raro: quando torna a essere un faro dell’arte, non lo fa in silenzio. Lo fa con un fragore che assomiglia a una dichiarazione d’amore al mondo. In questi anni la città sta riscrivendo il suo ruolo culturale con una forza che sorprende anche chi la conosce bene. Passeggiare tra i suoi quartieri significa imbattersi in installazioni, performance, opere che dialogano con l’antico come se fosse un interlocutore vivo. Non c’è museo o spazio civico che non stia vivendo un momento di trasformazione; non c’è attore culturale, pubblico o privato, che non percepisca un fermento nuovo, un desiderio collettivo di tornare a essere centro. In questo paesaggio vibrante si inserisce Elysian Fields di Jim Dine alla Cappella Palatina del Maschio Angioino: una mostra che non soltanto conferma la rinascita contemporanea di Napoli, ma la amplifica, la racconta, ne incarna lo spirito. Proprio perché Napoli sta ritrovando una spinta internazionale, la presenza di Jim Dine assume un valore ancora più significativo. L’artista americano, nato nel 1935, non è un semplice protagonista della scena contemporanea: è un testimone diretto delle rivoluzioni artistiche del Novecento, dalle happening seasons ai dialoghi con la Pop Art, dai ritorni alla figurazione alle sperimentazioni materiche. Dine ha attraversato tutto questo mantenendo un tratto che lo rende immediatamente riconoscibile: la capacità di trasformare l’oggetto quotidiano in un totem sentimentale, la scultura in un frammento di memoria, il gesto in un recupero della storia personale. La sua è un’arte che non si limita a esistere nello spazio: lo attiva, lo interroga, lo rimette in circolo. E proprio questo accade all’interno della Cappella Palatina, uno dei luoghi più suggestivi del Maschio Angioino. Entrarvi durante Elysian Fields significa essere accolti in un ambiente che non somiglia a un museo, ma piuttosto a un grande atelier aperto. Dine stesso ha dichiarato di sentirsi qui come in uno studio espanso, un luogo dove il lavoro prende forma e dialoga con l’architettura. Lo spazio, con la sua monumentalità severa e luminosa, diventa un contenitore vivo per una serie di opere in gesso che punteggiano la navata come presenze misteriose. Sono volti, tutti diversi, ognuno modellato con la cura rapida e concentrata che è tipica della sua mano. Non sono ritratti nel senso tradizionale: evocano piuttosto antichi reperti, maschere arcaiche, frammenti di una popolazione immaginaria. Sembrano personaggi affiorati dal terreno di uno scavo archeologico, figure sospese tra mito e rovina. Muoversi tra queste sculture significa attraversare un giardino di creature: alcune severe, altre malinconiche, altre ancora ironiche o enigmatiche. Un “giardino dei mostri”, come l’artista lo ha definito con affetto e stupore, dove la varietà dei volti diventa una celebrazione della moltitudine umana. Al fondo dello spazio si svela The Gate, l’opera più imponente e simbolica dell’intera mostra. È una grande cancellata che ingloba al suo interno oggetti poveri, materiali di recupero, reperti casuali: piccoli utensili, frammenti di vita, residui che per altri sarebbero scarti. Dine li ha raccolti nel corso degli anni, trattenendoli come fossero tracce da non perdere. Incastonati nella struttura metallica, questi oggetti formano un archivio poetico e fragile, una sorta di reliquiario laico che invita a una riflessione potente: ciò che appare marginale, dimenticato, può essere trasformato in testimonianza. Il confine – rappresentato dalla cancellata – non è solo barriera, ma anche passaggio, memoria che si trattiene e che si offre. Uno dei momenti più affascinanti del percorso è il dialogo tra le opere di Dine e i reperti e le sculture conservate nel Maschio Angioino, molti dei quali sono stati riallestiti e valorizzati proprio per questa mostra. Si tratta di un incontro sorprendente: la contemporaneità non invade il passato, non lo sovrasta; lo accompagna, ne raccoglie gli echi. Le sculture antiche riaffiorano come parte di una narrazione comune, mettendo in scena un confronto che è prima di tutto culturale. Napoli, in questo, ha una sensibilità unica: sa accogliere linguaggi diversi senza che l’antico perda la sua voce. Al contrario, ne esce rafforzato. È una lezione che altre città faticano a comprendere: l’identità non si conserva cristallizzandola, ma facendola dialogare. La gratitudine espressa da Jim Dine verso la municipalità di Napoli è un altro elemento che rende questa mostra speciale. L’artista ha parlato apertamente dell’aiuto ricevuto dal Comune, della cura con cui è stato accompagnato in ogni fase del progetto, della sensazione di essere parte di una comunità viva e accogliente. E ha annunciato con trasporto la volontà di tornare ancora a Napoli: un’affermazione che, detta da chi ha esposto nei musei più importanti del mondo, non è affatto banale. Significa riconoscere a questa città una forza magnetica che trascende la bellezza e tocca qualcosa di più profondo: l’autenticità. Nel contesto di Elysian Fields, questa autenticità diventa esperienza. Visitare la mostra non è un atto di consumo culturale: è un gesto di partecipazione. Il pubblico entra in uno spazio dove il tempo sembra rallentare, dove i materiali più poveri diventano racconto, dove il confine tra opera e reperto si assottiglia. Si esce con la percezione di aver attraversato un territorio interiore, una zona dell’immaginazione in cui passato e presente si toccano. Perché allora è importante, oggi, visitare una mostra d’arte contemporanea? Perché ci restituisce una parte della nostra capacità di guardare. L’arte contemporanea non è sempre immediata, e questo non è un difetto: è un invito. Ci chiede di abbandonare l’idea che tutto debba essere compreso all’istante e ci offre invece il privilegio della lentezza, del dubbio, della scoperta. In un mondo che pretende risposte rapide, l’arte ci riporta al valore delle domande. Elysian Fields è una di queste domande. Una domanda rivolta al tempo, alla memoria, alla materia. Una domanda che Napoli accoglie e rilancia con la sua storia millenaria e la sua rinnovata vitalità. Non è solo una mostra: è un’occasione di ascolto. È un passaggio — come The Gate — che invita il visitatore a attraversarlo, portando con sé ciò che conta davvero.