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Tra memoria e sangue: perché in Medioriente la diplomazia muore sotto le bombe
AGORÀ
13 giugno 2025
Tra memoria e sangue: perché in Medioriente la diplomazia muore sotto le bombe
metropolisweb

Viene da chiedersi: «Perché Israele soffia sul fuoco della violenza dopo aver conosciuto l’orrore dell’Olocausto?» Questa frase, così cruda e diretta, racchiude uno strappo profondo, uno smarrimento che accomuna molti: come può un popolo sopravvissuto all’abisso diventare, oggi, agli occhi di tanti, fautore di nuove sofferenze? È una domanda scomoda. Ma necessaria. Perché le immagini che arrivano da Gaza — corpi tra le macerie, bambini uccisi, ospedali al collasso, madri disperate — non si possono ignorare. Israele, dopo l’attacco atroce del 7 ottobre 2023 compiuto da Hamas, ha risposto con una forza travolgente. Ma oggi quella forza rischia di travolgere anche la coscienza del mondo. E non è solo Gaza. Israele ha aperto un nuovo fronte in Iran, attraverso operazioni mirate e attacchi di precisione che alzano il livello dello scontro ben oltre i confini della Palestina. Una tensione che si fa polveriera e che rischia di trascinare la regione — e forse il mondo — in un’escalation ancora più incontrollabile. Non si può avere un quadro generale senza guardare a Teheran. L’Iran è molto più che uno spettatore nello scenario mediorientale: è un attore centrale, strategicamente e ideologicamente impegnato a contrastare l’esistenza e l’espansione dello Stato di Israele. Lo fa apertamente, attraverso il finanziamento e l’addestramento di milizie come Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen e altre forze sciite in Iraq e Siria. Per la Repubblica Islamica, sostenere la “resistenza palestinese” è parte integrante della sua narrativa rivoluzionaria e anti-imperialista. Ma dietro la retorica religiosa e ideologica si nasconde anche una precisa strategia geopolitica: destabilizzare il nemico storico e rafforzare la propria influenza regionale. L’escalation delle ultime ore segna un salto di qualità nel conflitto. E rischia di far saltare ogni tentativo di stabilizzazione, portando con sé una nuova stagione di tensioni che coinvolge anche il Libano, la Siria, il Golfo Persico e le rotte energetiche mondiali. E allora sì, ci si può fermare a chiedersi: perché non funziona la diplomazia? Ogni processo di pace nasce dalla fiducia. Ma qui, da troppo tempo, la fiducia è morta. Israele e Palestina vivono una storia di promesse infrante, accordi mai davvero applicati, tregue che sono servite solo a preparare nuove guerre. A ogni tavolo negoziale si siedono interlocutori che si considerano nemici esistenziali. O peggio: nemici inumani. E quando l’altro non è più umano, la diplomazia muore. Oggi, nessuna delle parti ha leader in grado di costruire pace. In Israele, un governo fortemente orientato a destra fa della sicurezza una bandiera assoluta, anche a costo di sacrificare vite innocenti. Nei Territori palestinesi, Hamas parla con le armi, mentre l’Autorità Nazionale Palestinese appare debole e delegittimata. In Iran, l’odio per Israele è strumentalizzato per rafforzare un potere teocratico in crisi. Le leadership, in questo contesto, non mediano. Si blindano. Si radicalizzano. E in mezzo restano i popoli, le famiglie, i civili. E poi, le potenze mondiali giocano partite sporche. Gli interessi internazionali sono un ostacolo alla pace. Gli Stati Uniti, storicamente al fianco di Israele. L’Iran che finanzia Hamas e Hezbollah. La Russia e la Cina che giocano una partita parallela. L’Europa che condanna, ma raramente incide davvero. La verità è che il Medio Oriente è anche il teatro di un confronto globale dove la pace non è sempre la priorità. A volte è un danno collaterale. Un costo politico. O peggio, un ostacolo agli affari. Ma il punto più drammatico è forse questo: nessuno sa più come potrebbe essere la pace. Cosa significa “due popoli, due Stati”, quando la Palestina è spezzata in due entità (Gaza e Cisgiordania), quando gli insediamenti israeliani avanzano nei territori occupati, quando Gerusalemme è contesa fino all’ultimo vicolo? Senza un progetto realistico, senza una visione credibile, la diplomazia diventa un teatro dell’assurdo. Parole, strette di mano, promesse. E poi le bombe. E allora succede qualcosa di terribile: le vittime smettono di commuoverci. Ci abituiamo ai morti, ci schieriamo con una bandiera e diventiamo ciechi di fronte al dolore dell’altro. I bambini israeliani uccisi dai razzi. I bambini palestinesi estratti da sotto le macerie. Tutti innocenti, tutti senza voce. Quando l’unico modo per raccontare un popolo è attraverso il terrorismo, o l’occupazione, o la vendetta, non c’è più spazio per la compassione. E dove non c’è compassione, la diplomazia è solo un’illusione. Ma esiste ancora uno spiraglio? Sì. Esiste nella voce di chi resiste alla logica dell’odio. Nelle famiglie miste che vivono in pace. Nelle organizzazioni umanitarie che curano chiunque, senza chiedere da che parte stia. Nei rabbini che parlano con gli imam. Negli israeliani che protestano contro la guerra. Nei giovani palestinesi che rifiutano la logica della violenza. Esiste una diplomazia dal basso, fatta di ponti, di gesti piccoli ma eroici. È lì che forse dobbiamo guardare. Perché da quelle crepe, da quelle fragilità umane, potrebbe nascere qualcosa di nuovo. Qualcosa che non abbia il sapore della vendetta, ma quello della giustizia.

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armi bambini bombe cisgiordania crisi fuoco iran occupazione olocausto ospedali politica protesta TENSIONE terrorismo vittime
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