«Imagine», storia del capolavoro di John Lennon. Una preghiera laica di pace
YOUNG
11 ottobre 2025

«Imagine», storia del capolavoro di John Lennon. Una preghiera laica di pace

«Immagina non ci siano nazioni», scrive Lennon. Un testo che resta molto più di una provocazione politica: un invito all’empatia universale
Asia Schettino

Quando Imagine viene pubblicata, il mondo vive un periodo di grande fermento: la guerra del Vietnam, le proteste pacifiste, la corsa allo spazio, e la fine dell’utopia hippie. In questo contesto, John Lennon lancia un messaggio semplice e rivoluzionario al tempo stesso: immaginare un mondo senza barriere, senza guerre, senza religioni, senza proprietà. E’ l’ottobre del 1971 e John Lennon è da poco uscito dall’ombra dei Beatles.

«Immagina non ci siano nazioni…», scrive. Molto più di una provocazione politica: un’utopia collettiva, un invito all’empatia universale. Lennon disegna un mondo libero da ciò che divide, fondato su ciò che unisce. E proprio la forza di questa utopia, a cinquant’anni di distanza, rende Imagine una delle canzoni più influenti, amate e discusse del Novecento, attuale anche nel nuovo millennio. Un brano semplice, scarno, eppure capace di attraversare le epoche e i confini, trasformandosi in un’icona culturale e in un inno laico alla pace e all’unità del genere umano.

La forza di Imagine non sta nella complessità musicale, ma nella sua essenzialità. Un pianoforte, qualche accordo in maggiore, e una voce che non predica, ma invita. Lennon scelse la forma della ballata pop per proporre una visione radicale: un’utopia che parla piano, ma va dritta al cuore. «Il Manifesto del Partito Comunista, ma zuccherato», disse lui stesso con autoironia. Perché dietro quella melodia gentile si cela una provocazione potente, ancora oggi capace di generare reazioni contrastanti: per alcuni, un inno alla fratellanza universale; per altri, un esercizio di ingenuo idealismo.

Lennon spiegò che le similitudini tra gli ideali espressi nel brano e quelli comunisti erano volute. Nel punto in cui dice «Immagina non ci siano più religioni, Paesi e politica» ricorda virtualmente quella filosofia, anche se in realtà Lennon non era vicino al Comunismo (non a caso viveva in un attico di lusso a New York), e non si riconosceva in alcun movimento politico». Imagine nasce tra le pareti bianche dello studio di casa Lennon, a Tittenhurst Park, nel sobborgo di Ascot. È lì che, su un pianoforte Steinway – conservato al museo di storia americana di Washington – Lennon abbozza i primi versi, ispirato da una poesia contenuta in Grapefruit, una raccolta concettuale firmata da Yōko Ono. La registrazione avviene nel luglio del 1971 in un clima intimo, quasi domestico, con la produzione affidata a Phil Spector.

Il brano viene pubblicato a settembre nello stesso anno, con un’accoglienza inizialmente tiepida in Europa, ma ben più calorosa negli Stati Uniti. Con il tempo, diventa il pezzo più celebre della carriera solista di John Lennon, e uno dei più trasmessi nella storia della musica. Nel corso dei decenni, Imagine ha accompagnato alcuni dei momenti più emblematici della storia recente: dalle marce per la pace degli anni Settanta, alle commemorazioni dell’11 settembre, fino alle manifestazioni ambientaliste e pacifiste che hanno scandito l’inizio del nuovo millennio. È stato eseguito da artisti di ogni genere e lingua, suonato nei funerali, in cerimonie ufficiali, in eventi di beneficenza e in occasioni di lutto collettivo. Ha suscitato censure, ma anche premi e onorificenze. È stato dichiarato dall’Unesco «Patrimonio sonoro dell’umanità», ed è spesso considerato tra le dieci canzoni più importanti della storia della musica popolare.

Per molti, Imagine è diventata una preghiera laica. Per altri, una provocazione travestita da melodia. Ma pochi negano il suo potere simbolico. Pochi giorni prima della sua tragica morte, avvenuta per mano di Mark David Chapman nel dicembre del 1980 a New York, davanti un palazzo di fine Ottocento affacciato su Central Park, Lennon raccontò che Dick Gregory aveva regalato a lui e a Yoko Ono un libro di preghiere cristiane. E quelle pagine furono l’ispirazione per scrivere il suo capolavoro. Disse: «Il concetto di preghiera positiva può diventare vero se solo riuscissimo a immaginare un mondo in pace, senza alcuna definizione di religione. Questo non significa che non debbano esserci le religioni, ma che bisognerebbe eliminare semplicemente il concetto secondo il quale il mio Dio è più grande del tuo».

A lungo rimasta nell’ombra della figura ingombrante di Lennon, Yōko Ono è oggi riconosciuta come coautrice della canzone. Il suo contributo, non solo concettuale ma anche poetico, è stato cruciale nella genesi di Imagine. Fu Lennon stesso ad ammettere di essersi ispirato agli scritti della moglie. Ma solo nel 2017, ben dopo la sua morte, la Ono venne formalmente riconosciuta come coautrice, in un gesto tanto simbolico quanto doveroso. Artista concettuale, performer radicale e figura controversa, Yōko Ono ha infuso nella canzone il suo sguardo cosmopolita, la sua spiritualità pacifista, la sua ricerca di un’arte che abbatta i confini tra individuo e collettività.

Imagine è anche, e forse soprattutto, il frutto di questa unione. Imagine non è una canzone perfetta. È stata accusata di ipocrisia, di ingenuità, di utopismo disconnesso dalla realtà. Ma è proprio questa tensione tra realtà e possibilità a renderla ancora viva, mezzo secolo dopo. Lennon non cantava da profeta, ma da uomo. Con i suoi limiti, le sue contraddizioni, e un desiderio profondamente umano: sognare un mondo diverso. E se oggi, cinquant’anni dopo, continuiamo a cantarla, è perché quel sogno non ci ha ancora abbandonati. «You may say I’m a dreamer, but I’m not the only one» (Potresti dire che sono un sognatore, ma non sono l’unico). Cinquant’anni dopo, siamo ancora in tanti.