No comment. Un dolore troppo grande, immenso, che il tempo ovviamente non può rimarginare. La famiglia di Carlo Cannavacciuolo resta in silenzio, con la stessa dignitosa compostezza con cui sin dall’inizio ha sempre affrontato la tragedia che l’ha sconvolta, quella maledetta notte del 4 novembre 2011. Quando loro figlio venne strappato al loro affetto in un tentativo di rapina al quale reagì per proteggere la sua ragazza. A distanza di poco più di sei anni da quella tragedia, uno dei banditi responsabili della sua morte, Ciro Afeltra, ha deciso di prendere carta e penna e scrivere a Metropolis una lettera in cui, sostanzialmente, si rivolge ai ragazzini delle baby-gang saliti prepotentemente alla ribalta delle cronache negli ultimi mesi. «Fermatevi, o farete la mia fine» scrive Ciro Afeltra dal carcere di Ariano Irpino, dove sta scontando l’ergastolo. Un appello che appare sentito, e che può e deve far riflettere. Soprattutto chi, sin da quella tragedia consumatasi tra Santa Maria la Carità e Pimonte, non solo si è interrogato su come sia stato possibile arrivare a tanto, ma si è rimboccato le maniche per far sì che non si ripetesse. Come don Gennaro Giordano, parroco di San Michele, la chiesa principale di Pimonte.
«Tragedie come quella di Carlo non si devono ripetere – afferma don Gennaro – ma anche come quella della ragazzina di 15 anni abusata da un branco di coetanei. Fatti che hanno scosso dalle fondamenta la nostra comunità, non solo parrocchiale. Ci siamo interrogati sul da farsi e abbiamo avviato un percorso modificando la Pastorale Familiare, di concerto con la scuola, le associazioni e le altre istituzioni»